Il fascino discreto della remigrazione
La Lega ha sposato una proposta eversiva e anticostituzionale, ma fa finta di non sapere cosa significhi davvero
Nelle ultime settimane, oltre 900mila persone sono scese in piazza in Italia per protestare contro uno dei più grandi scandali politici nella storia recente del Paese. «Noi siamo il muro di fuoco», era l’appello dei manifestanti per erigere una barriera invalicabile attorno alla Lega, escludendola da qualsiasi alleanza elettorale. Alle proteste hanno preso parte esponenti di ogni schieramento, anche del centrodestra, impegnandosi a non cooperare, a nessun livello, con l’estrema destra e con un partito che il leader dei Verdi non ha esitato a definire «un nemico della nostra democrazia, della nostra economia e della nostra società». Secondo un costituzionalista, infatti, la nuova proposta della Lega non solo violerebbe la Costituzione e le convenzioni internazionali sui diritti umani, ma, per essere attuata, presupporrebbe un colpo di Stato.
Se vi sembra di non aver mai sentito parlare di questa notizia, avete ragione. In realtà, ho appena raccontato, trasponendolo fedelmente nel contesto italiano, senza alcuna variazione, quello che è successo in Germania all’inizio del 2024, quando l’estrema destra di Alternativa per la Germania (AfD) fu scossa da una rivelazione che ricalca, con quasi nessuna differenza, un’altra che ha, invece, coinvolto la Lega lo scorso maggio e a cui pochi hanno, inspiegabilmente, rivolto la giusta attenzione.
Nel gennaio 2024, il collettivo giornalistico Correctiv aveva svelato che, nel corso di una riunione segreta in un hotel nei pressi di Postdam, l’estremista di destra austriaco Martin Sellner aveva esposto a imprenditori, membri dell’alta borghesia tedesca, neonazisti e figure di spicco di AfD, tra cui il braccio destro della leader Alice Weidel, un piano di remigrazione per espellere dalla Germania e deportare in un imprecisato Stato del Nordafrica fino a due milioni di persone appartenenti a tre categorie: richiedenti asilo, immigrati regolari e «cittadini non assimilati», cioè tedeschi di seconda e terza generazione ritenuti non integrati.
La stessa scena si è ripetuta, identica, il 17 maggio a Gallarate, dove, durante il Remigration summit, Sellner e altri tredici oratori, tra cui estremisti di destra e neonazisti, hanno discusso, alla presenza di una delegazione della Lega, delle strategie politiche, comunicative e legislative per sdoganare nel dibattito pubblico e in seguito implementare la remigrazione.
In questa occasione, come ho raccontato in un dettagliato resoconto per Facta, è stato l’estremista di destra fiammingo Dries Van Langenhove a entrare nei particolari del piano, la cui terza fase consiste nell’esercitare «pressione culturale, legale ed economica» per «incoraggiare il rimpatrio volontario» di «cittadini non assimilati», vale a dire di coloro che «vivono in società parallele ostili e sono fedeli a nazioni o ideologie straniere».
Il rilievo che sia Van Langenhove sia Sellner hanno, in varie occasioni, dato alla presunta natura “volontaria” della terza fase della remigrazione è centrale per comprenderne la cattiva fede.
Entrambi riconoscono che è illegale espellere cittadini europei e giurano di volersi attenere ai principi costituzionali. Sono ben consapevoli che, in caso contrario, la remigrazione sarebbe sinonimo di eversione. «Non siamo a favore della discriminazione dei cittadini», ha ad esempio garantito Sellner in un’intervista a Le Iene. «Se però togliamo i sussidi statali e combattiamo l’islamizzazione», ha proseguito, «a un certo punto queste persone si sentiranno a disagio e forse decideranno di loro iniziativa di andare in un altro Paese, magari islamico, dove potranno vivere in modo migliore». Rendere impossibile la vita ai «cittadini non assimilati» e incentivarne, anche economicamente, l’allontanamento dall’Europa è l’obiettivo dichiarato della terza fase della remigrazione.
Eppure, non c’è nulla né di legale né tantomeno di costituzionale nel congegnare meccanismi di pressione all’esilio.
Queste sono anche le conclusioni cui sono giunti, in diverse sentenze, i tribunali tedeschi mentre valutavano l’opportunità di vietare la rivista di estrema destra Compact, su cui Sellner ha pubblicato, e di classificare come incompatibili con la Costituzione le posizioni sulla remigrazione di Alternativa per la Germania. «È incostituzionale e incompatibile con la dignità umana associare una “concezione etnico-culturale del popolo” a un obiettivo politico che mette in discussione l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini», hanno scritto i giudici del tribunale di Münster nel maggio 2024.
Il presupposto della remigrazione - secondo i magistrati di Monaco di Baviera e Lipsia - è degradare a cittadini di seconda classe le persone con background migratorio, discriminando sulla base della religione e dell’etnia e negando diritti democratici fondamentali, come la libertà di espressione, di religione e di riunione.
Quali sarebbero, infatti, i criteri per stabilire se un cittadino è “assimilato”, e in nome di quale oggettività qualcuno si arrogherebbe il privilegio di definirli? Dietro la natura “volontaria” della remigrazione si nasconde, in realtà, un progetto per varare leggi arbitrarie su misura e ristabilire, così, una presunta purezza etnico-culturale.
Che l’intenzione sia questa è confermato da molte prove. Innanzitutto, Sellner ha esplicitamente quantificato in cinque o sei milioni i cittadini tedeschi non assimilati che verrebbero privati della cittadinanza e deportati all’estero, una cifra che corrisponde a circa la metà dei tedeschi discendenti di stranieri. Non si tratta, insomma, di prudenti valutazioni su casi singoli - già di per sé illegali - ma di una schedatura di massa possibile solo se si discrimina in modo sommario per etnia e religione.
In secondo luogo, nei suoi testi e nelle sue conferenze Sellner ha ammesso di ispirarsi all’ideologia etnonazionalista (völkisch) del filosofo Carl Schmitt, che ravvisava nell’omogeneità etnica il prerequisito perché un popolo riesca a esprimere la propria volontà generale. Il fatto che Schmitt avesse entusiasticamente individuato nelle leggi razziali di Norimberga del 1935 - che spogliavano gli ebrei della cittadinanza tedesca, riducendoli a sudditi dello Stato, e ne vietavano il matrimonio con i tedeschi di sangue - la realizzazione di un principio di libertà costituzionale getta una luce ancora più inquietante sulle giustificazioni giuridiche che la remigrazione prenderebbe a modello.
Con questi riferimenti in mente, non sembra un caso che l’organizzatore italiano del Remigration summit, Andrea Ballarati, abbia proprio scelto di usare la precisa traduzione di un termine fondante del nazionalsocialismo - «comunità di popolo», Volksgemeinschaft - per contestare il dimezzamento dei tempi di attesa per il conseguimento della cittadinanza italiana da parte degli stranieri, come previsto dal quinto quesito dei referendum dell’8 e 9 giugno scorsi.
D’altronde, sono stati gli stessi speaker del summit a non far mistero della loro concezione etnonazionalista bianca, teorizzando la remigrazione degli afrodiscendenti americani in Ghana o dei musulmani olandesi in Medio Oriente.
Se il problema fosse davvero l’assimilazione culturale o, quanto meno, l’integrazione degli immigrati nelle società occidentali e non, invece, la loro mera provenienza geografica, perché alimentare un allarmismo ossessivo sulla possibile retrocessione dei bianchi, degli «europei etnici», a minoranza demografica nel continente entro la fine del secolo? Con queste premesse, è difficile credere che la remigrazione apra un semplice dibattito sull’immigrazione più di quanto non ne spalanchi un altro, ben più minaccioso, sulle caratteristiche che escluderebbero, a priori, dall’appartenenza ai popoli europei e occidentali in genere.

E poi come legittimare nelle democrazie contemporanee una visione autoritaria e razzista che fa così spaventosamente eco con quella dei totalitarismi fascisti del Novecento? I sostenitori della remigrazione ce lo spiegano apertamente: basta rimuoverne il senso di colpa. C’è un «culto del senso di colpa» in Germania, secondo Sellner, un «masochismo nazionale» che, abusando della commemorazione dell’Olocausto, fa il «lavaggio del cervello» alle persone e le trattiene dal «votare razionalmente», cioè per le politiche anti-immigrazione di AfD. È il «complesso di colpa della Seconda guerra mondiale» ad impedire - ha sottolineato la commentatrice olandese Eva Vlaardingerbroek a Gallarate - una discussione franca sulla remigrazione in Europa.
I remigrazionisti contano, insomma, che un tocco di rebranding faccia un po’ di meno assomigliare la remigrazione a una deportazione e, possibilmente, ancora meno al piano con cui i nazisti progettavano, in un primo momento, di cacciare gli ebrei in Madagascar, prima di constatare l’inattuabilità di un’espulsione di massa e di optare per la soluzione finale.
Come spesso accade quando si parla di immigrazione, il pericolo è, in effetti, che l’immediata obiezione alla remigrazione non verta sul suo carattere anticostituzionale ed eversivo, ma sulla sua impraticabilità in concreto, il che, per un sinistro paradosso, suonerebbe come un involontario argomento in più a favore dello sterminio. È proprio perché sappiamo, dalla Storia, come si concludono i piani di remigrazione che dovremmo preoccuparci di come promettono di svilupparsi.
C’è, infine, un ultimo indizio sugli obiettivi reali della remigrazione, ed è la teoria del complotto della Grande Sostituzione (o sostituzione etnica). La sua comprensione, avverte Sellner, è anzi essenziale per generare il consenso per le politiche di remigrazione. Se gli attuali flussi di immigrazione si limitassero a essere un elemento collaterale del capitalismo o della globalizzazione, sarebbe allora sufficiente correggere il sistema economico e le relazioni internazionali per attenuarne gli effetti distorsivi. Ma se li si trasforma in una cospirazione, in una «politica deliberata» delle élite per creare una nuova maggioranza demografica da sfruttare a scopi elettorali o, ancora peggio, per rimpiazzare la popolazione autoctona, si produce la rabbia necessaria per la mobilitazione. E, magari, pure per qualcosa in più.
Da Anders Breivik, in Norvegia, a Brendon Tarrant, in Nuova Zelanda, la Grande Sostituzione è stata la molla che ha spinto alle più grandi ed efferate stragi di estrema destra negli ultimi decenni. Fu, ad esempio, la notizia di una corrispondenza per email fra Tarrant e Sellner, a cui l’attentatore di Christchurch aveva donato 1500 euro, a indurre le autorità americane a porre il divieto di ingresso all’austriaco negli Stati Uniti.
Non sono, insomma, possibili equivoci su cosa significhi davvero remigrazione. La Lega, però, sembra fare finta di non saperlo.
«Io sono a favore della remigrazione e, quindi, dell’espulsione di chi è qui senza averne diritto o di chi è qui e commette dei delitti, e io sono dell’idea che sarebbe più corretto creare degli accordi bilaterali con i Paesi di provenienza affinché le pene venissero scontate e pagate nei territori dai cui provengono. Questo è il mio concetto di remigrazione, che non ha nulla a che vedere, né una virgola in più o in meno, con altri concetti», ha tentato di chiarire l’europarlamentare leghista Isabella Tovaglieri all’esterno del Teatro Condominio di Gallarate.
«Il termine remigrazione si può declinare con […] l’espulsione degli illegali dai nostri Paesi, ma si può anche spiegare con le politiche che ha adottato, ad esempio, un Paese come la Danimarca, a governo socialista, che ha invertito un trend sia demografico sia culturale nel proprio Paese, dove per la prima volta le nuove generazioni sono più danesi che non di matrice straniera», ha dichiarato, durante la pausa pranzo del summit, Davide Quadri, responsabile esteri della Lega Giovani1.
Sono puntualizzazioni che dovrebbero – forse – rassicurare, se non fosse che mancano di logica e chiarezza comunicativa: perché, infatti, preferire l’ambiguo e oscuro termine “remigrazione”, assumendosi tutta la responsabilità di pronunciarlo, se lo scopo è usarlo come sinonimo rafforzativo di “rimpatrio” o di “espulsione”? Dog-whistle, replicherebbe un malizioso, cioè un linguaggio in codice sufficientemente allusivo da essere decodificabile dal gruppo cui si rivolge, ma, allo stesso tempo, altrettanto vago da eludere la prevedibile sanzione pubblica.
E, tuttavia, noi – che maliziosi non siamo – abbiamo il dovere di credere alla sincerità dei leghisti o, se preferite, alla loro inettitudine, visto che avrebbero compreso esclusivamente le prime due fasi della remigrazione – espulsione degli immigrati illegali e revoca del diritto di residenza a chi delinque – e non la terza, la persecuzione e la deportazione dei «cittadini non assimilati». Soltanto che la nostra buona volontà è più volte messa a dura prova.
All’inizio dell’anno, ho per primo seguito, passo dopo passo, le modalità con cui la Lega ha integrato la remigrazione nella sua retorica. La rapidità con cui il concetto è stato normalizzato è sconcertante: il 2 gennaio Alessandro Corbetta, capogruppo in Regione Lombardia, è stato il primo politico a parlarne in Italia; il 3 gennaio è stato il direttore de La Verità, Maurizio Belpietro, a salutare positivamente la «nuova parola d’ordine»; il 9 gennaio è entrata per la prima volta in parlamento, per bocca del leghista Rossano Sasso; e il 15 gennaio di remigrazione si discuteva già in televisione, a Fuori dal coro su Rete 4.
In mezzo numerosi altri endorsement, il cui minimo comun denominatore era l’incapacità di trovare una definizione condivisa. Non tutti, infatti, adottavano la cauta linea semantica di Tovaglieri. Alcuni attribuivano al termine una sospetta accezione, di portata più vasta: remigrazione delle seconde generazioni che «non si vogliono adeguare alla nostra cultura» - chiedevano i giovani della Lega milanese -, «rimpatriare non solo i clandestini, ma anche chi non vuole integrarsi», suggeriva poi un altro consigliere lombardo, Riccardo Pase.
Ma se la confusione nell’esprimersi non è necessariamente dolosa, di certo lo sono le menzogne. All’esterno del teatro di Gallarate, il leghista Max Ferrari, fondatore di TelePadania e assistente di Susanna Ceccardi all’europarlamento, negava contro ogni evidenza che, durante il summit, si fosse parlato di «deportazione» di chi ha la cittadinanza, perché chi ce l’ha «e si comporta bene non ha nulla da temere» (una bella rassicurazione sotto forma di intimidazione). Anche Corbetta, nel corso di un’assemblea regionale, insisteva, pur sapendo di dire il falso, che i relatori si fossero limitati a proporre il rimpatrio degli «immigrati illegali […] e di chi delinque».
Menzogne frutto dell’imbarazzo per aver avallato, con la propria presenza, una piattaforma politica incostituzionale? Può darsi, eppure, se così fosse stato, la prudenza avrebbe raccomandato di cambiare registro. Nelle settimane successive, invece, i leghisti hanno continuato a rivendicarla, la remigrazione: ne ha sottolineato il «buonsenso», il generale Roberto Vannacci, mettendola in chiara opposizione al referendum per la cittadinanza, l’ha sposata «in pieno» il deputato Claudio Borghi a Piazzapulita, su La7, e ne ha ricordato l’urgenza contro «chi non vuole integrarsi» Isabella Tovaglieri, alla conferenza CPAC di Budapest.
Non solo, quindi, la partecipazione a un convegno con estremisti di destra e neonazisti non ha spinto la Lega a un ravvedimento, ma – come posso qui rivelare per la prima volta – i rapporti con gli organizzatori del summit si sono, da allora, ulteriormente affinati.
A lavori conclusi, il 17 maggio, alcuni leghisti si sono trattenuti con Sellner e altri speaker almeno fino al tardo pomeriggio, segno di un rapporto di amichevole cortesia che travalica la semplice curiosità di ascoltare le idee espresse al summit, come era stato fatto intendere. Sono le «nuove sinergie» che Quadri non aveva smentito potessero nascere, parlando con Alessandro Sortino de Le Iene.

E, infatti, a distanza di pochi giorni dal summit, la Lega potrebbe aver avuto un ruolo nell’accreditare come ospite Andrea Ballarati alla conferenza CPAC di Budapest, il 29 e 30 maggio. È lo stesso Ballarati a ringraziare, in un post su X, Davide Quadri, Max Ferrari e Mirko Reto, sindaco di Casciago, per il contributo. «La partecipazione ad eventi, la costruzione di basi di influenza e la condivisione di battaglie con gruppi politici adiacenti alla nostra area di “comfort” è la strategia per noi attualmente fruibile», ha commentato. Senza la Lega, è improbabile che Ballarati, fino al mese scorso leader sconosciuto di un piccolo gruppo identitario comasco, avrebbe mai avuto l’occasione di accedere a una CPAC, uno dei più importanti ritrovi delle destre istituzionali europee, statunitensi e latinoamericane.

È un disinteressato aiuto in amicizia a un giovane militante o una calcolata spintarella per far «vincere la guerra metapolitica dell’informazione», come auspica Sellner, alla nuova destra remigrazionista?
Quale che sia la risposta, resta la constatazione che, lo scorso anno, in Germania era stata sufficiente la notizia di una riunione segreta con Sellner per scatenare una tempesta attorno ad AfD. In Italia, invece, nonostante la significativa mobilitazione per impedire lo svolgimento del summit, la Lega non ha subito nessuna sanzione politica per un incontro spudoratamente alla luce del sole. In un solo anno, in effetti, molto è già cambiato: l’AfD ha inglobato la remigrazione nel suo programma ed è diventato il secondo partito tedesco; in Austria l’FPÖ ha promesso la remigrazione e ha vinto le elezioni, pur senza poi riuscire a stringere un accordo di governo; e negli Stati Uniti l’amministrazione Trump sta aprendo un ufficio per la remigrazione.
Una cosa però non è cambiata: la terza fase della remigrazione è un piano eversivo e anticostituzionale, tanto in Germania, quanto in Italia. Secondo l’articolo 22 della Costituzione, «nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome», mentre l’articolo 3 vieta discriminazioni «di razza, di lingua, di religione», le stesse che, al contrario, la remigrazione praticherebbe per distinguere fra cittadini “di sangue” e cittadini con background migratorio.
Da mesi, tuttavia, la Lega lavora per rendere una realtà la revoca della cittadinanza per chi l’ha acquisita, modificando la legge del 1992, che, ad oggi, la prevede soltanto in casi eccezionali (principalmente per terrorismo o eversione dell’ordine costituzionale, ricostituzione di associazione sovversive disciolte, banda armata). Lo scorso settembre il deputato leghista Igor Iezzi ha depositato una proposta di legge per consentire la revoca della cittadinanza anche per violenza sessuale, pedofilia, omicidio e per reati gravi contro la persona o il patrimonio. La proposta si è impantanata alle camere, ma è un cavallo di battaglia di Matteo Salvini e del suo vice Vannacci ed è stata rilanciata dopo il Remigration summit e il referendum.
La cittadinanza si tramuterebbe così in una provvisoria concessione dello Stato, soggetta alla buona condotta del singolo e, soprattutto, continuamente suscettibile di essere ritirata in caso di nuovi interventi legislativi, ad esempio l’aggiunta di ulteriori fattispecie che definiscano i parametri di una buona “integrazione” o “assimilazione”. È esattamente quella condizione permanente di incertezza e di paura che la terza fase della remigrazione intende suscitare nei «cittadini non assimilati», forzandoli all’esilio.
Ribadiamolo: non c’è nulla di legale e costituzionale nella remigrazione, per questo esperti di diritto costituzionale tedesco come Ulrich Karpenstein sono convinti che le sue violazioni siano di tale portata da esigere un colpo di Stato.
Se non vi fa paura tutto questo, se nemmeno questo vi suscita indignazione, allora ha ragione Martin Sellner: «la remigrazione è inevitabile».
1 A partire dal 2018, il governo socialdemocratico danese, con la giustificazione di voler proteggere il welfare state, ha adottato un approccio durissimo, lo stesso auspicato dall’estrema destra, sull’immigrazione, restringendo i requisiti per il diritto d’asilo e incentivando i rimpatri dei rifugiati. In particolare, ha designato come “ghetti” le aree urbane che non soddisfano adeguati standard in reddito, occupazione, istruzione e legalità: qui è possibile demolire condomini e sfrattare inquilini per incoraggiare il trasferimento dei bianchi nei quartieri e obbligare i bambini non bianchi nati da stranieri a frequentare programmi speciali di danesità. Queste misure sono all’esame della Corte di giustizia europea perché a rischio di discriminazione e ne è stata esortata la sospensione da parte delle Nazioni Unite.
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