La convention di QAnon a Dallas, tra pacchianeria western e auspici di golpe militare
I seguaci della teoria del complotto si sono radunati in un finto villaggio western per tre giorni di conferenze. Tra aste di memorabilia e balli country, c'è chi fa il tifo per un golpe militare
Quando Colleen Morgan, elettrice indipendente di sinistra, aveva saputo da un’amica che Dallas, la sua città, avrebbe ospitato una convention del movimento complottista QAnon negli ultimi tre giorni di maggio, aveva fatto ciò che si aspetta da un’attivista politica nell’era digitale: aveva aperto una petizione su Change.org per chiedere la cancellazione dell’evento. Nel giro di poche settimane, ventimila persone avevano sottoscritto l’appello.
Sul consiglio municipale di Dallas, presieduto dal democratico Eric Johnson, aveva preso consistenza un’opprimente cappa di imbarazzo. Centinaia di simpatizzanti di un gruppo classificato come “minaccia terroristica interna” dall’Fbi avrebbero pernottato in un albergo di proprietà del comune, l’Omni Dallas Hotel, per accusare il partito del sindaco di essere una cosca satanista dedita al traffico e all’uccisione rituale di bambini. Occorreva una via d’uscita per non infiammare gli animi.
Ufficialmente il ciclo di conferenze non era riconducibile a QAnon. Era sobriamente intitolato “Raduno patriottico per Dio e il Paese” ed era organizzato da una sigla sconosciuta, “La Voce Patriottica”. A crearla era stata una coppia di fidanzati, John e Amy, incontratisi proprio scambiandosi opinioni sulle teorie del complotto. John, occhiali, sorriso bonaccione, un accenno di doppio mento e un immancabile berretto da baseball a coprire l’incipiente calvizie, era un fan di Trump sin dal primo giorno, ma, secondo Amy, non era al corrente di molti segreti, ad esempio che McCain, ex candidato repubblicano alla Casa Bianca, morto di cancro nel 2018, era stato in realtà giustiziato.
John aveva sempre negato che la convention avesse a che fare con QAnon. Ci si poteva fidare delle sue rassicurazioni? Forse no, tenendo conto che sulla rete il suo nome di battaglia è “QAnon John” e che sulla locandina dell’evento – un cappello da cowboy campeggiante su stelle e strisce e un’insegna da saloon – figuravano, seppur in piccolo, le lettere “WWG1WGA”, acronimo di “dove va uno, andiamo tutti”, uno dei motti di QAnon.
Al consiglio municipale di Dallas qualcuno aveva quindi prudentemente scomodato quella brutta storia del 2016, quando il precedente sindaco, il democratico Mike Rowlings, aveva scoperto a 62 anni l’esistenza del BDSM visitando il sito di Exxxotica, una fiera dell’industria pornografica in programma in città. «C’è un posto chiamato dungeon», aveva sussurrato Rowlings senza fiato, «dove le donne vengono legate e frustate. Abbiamo passato il limite, abbiamo passato il limite», aveva poi ripetuto sconvolto. Se avesse consentito lo svolgimento della manifestazione, ne sarebbe derivato un danno di immagine per Dallas. Il consigliere Adam McGough condivideva la preoccupazione: «La verità è che la pornografia non è solo una bugia, ma è letale». Era stato convocato il capo della polizia per verificare il nesso tra la fiera per adulti dell’anno precedente e l’aumento di crimini in città. Lui lo aveva smentito, rispondendo a monosillabi alle domande del consigliere Kingston, che per sua tranquillità desiderava appurare se fosse stato fatto tutto il possibile, come infiltrare un agente sotto copertura tra le pornostar. Sì, era stato fatto, aveva confermato il capo della polizia, senza scendere nei particolari. Ma Rowlings era deciso ad andare avanti, nonostante gli appigli legali svanissero sotto i suoi piedi. «Al diavolo i giudici, faremo ciò che è giusto». Exxxotica era stata vietata e bandita. Nel 2019 la Corte d’Appello di New Orleans aveva condannato la città a scucire un milione di dollari, tra risarcimento al signor Handy, fondatore di Exxxotica, e parcelle degli avvocati, per violazione dei principi del primo emendamento che garantiscono la libertà d’espressione.
Gran brutta faccenda, annuivano ora i consiglieri in carica. Non bisognava commettere lo stesso errore con la convention di QAnon. La portavoce del consiglio municipale aveva allora battuto al computer uno stringato comunicato e lo aveva spedito via email alla stampa: «Dallas è una città accogliente, che mette insieme persone con interessi e idee diverse. Come sempre, faremo del nostro meglio per assicurarci che i residenti di Dallas e gli ospiti dell’evento siano tutelati durante il loro soggiorno». Un capolavoro di diplomazia e autocontrollo.
Ma non era finita. A duecento metri dall’Omni Hotel, dove avrebbero alloggiato i sostenitori di QAnon, si trova il Kay Bailey Hutchison Convention Center, un centro per migranti in cui erano ospitati circa millecinquecento bambini non accompagnati. Discretamente, senza clamore, a pochi giorni dalla scadenza degli accordi con la struttura, il Dipartimento della salute e dei servizi umani e la città di Dallas avevano convenuto di trasferire i bambini in altra sede. Perché va bene rispettare il primo emendamento, ma le precauzioni non sono mai troppe.
Ed ecco finalmente il giorno tanto atteso. John è a Dallas almeno dal 27 maggio, in anticipo sull’inizio della convention, e ha sostituto il cappello da baseball, un po’ troppo yankee, con uno più appropriato da texano.
Sul suo canale Telegram posta selfie con altri influencer di QAnon e, ravanando tra gli scatoloni sotto cui ha seppellito la sua camera d’albergo, allestisce un degno comitato di benvenuto. Chi arriva all’Omni Hotel non può infatti non notare un enorme e solenne striscione in cui si invita a sostenere il «vero presidente» Donald Trump e a chiedere nuove elezioni.
Per partecipare di persona alla tre giorni di conferenze ci sono due pacchetti distinti: uno da 500 dollari, comprendente vitto e alloggio a Dallas, a un prezzo scontato; e un pacchetto VIP da 1000 dollari, con cui si è onorati di incontri a tu per tu con i relatori e omaggiati di deliziosi gadget regalo, come tazze e poster di Trump. Il raduno patriottico non è insomma un posto per emarginati economici, né per giovani, poco presenti, forse scoraggiati dall’alto prezzo dei biglietti. Tuttavia, è sempre possibile seguire i dibattiti online sulla piattaforma MAGA.info, pagando 17,76 dollari (trasposizione monetaria della data della dichiarazione di indipendenza).
A sorpresa, la location principale delle conferenze viene modificata all’ultimo. Ci si sposta all’Eddie Deen’s Ranch, una grande e pacchiana riproduzione al chiuso di un villaggio western, con tanto di toro meccanico, a pochi minuti a piedi dall’Omni Hotel.
Le giornate seguono un dettagliato cronoprogramma: al mattino funzione religiosa intrisa di riferimenti a QAnon con il pastore Sean Golliday e altri oratori; a seguire panel e conferenze degli ospiti invitati, con domande dal pubblico; e alla sera musica e balli country. Per la prima cena il menu dell’hotel prevede una scelta di calamari fritti, bruschette e gamberetti come antipasti, due tipi di insalate, e poi filetto di manzo, bistecca Tomahawk, salmone alla griglia, aragosta sudafricana e infine, per dessert, torta al cioccolato e al lime. Mentre i camerieri cominciano a servire le pietanze, John e Amy, emozionati ed eleganti, impeccabili anfitrioni, pregano i commensali a tavola di presentarsi a vicenda. Molti di loro non si sono mai incontrati dal vivo, si sono solo scritti, spesso dietro pseudonimo, sui social e le app di messaggistica.
Per tutta la durata della convention, nei paraggi dell’hotel e del villaggio western staziona un nutrito drappello di agenti di polizia. Come servizio d’ordine, ci sono anche una ventina di ex militari, pomposamente chiamati “pretoriani del primo emendamento” dal suo fondatore, l’ex berretto verde Robert Patrick Lewis, alcuni dei quali si aggirano tra il saloon, il fienile e le baracche di legno con temibili carlini al guinzaglio. Il secondo giorno i poliziotti devono intervenire. Tra sghignazzi e applausi ironici, gli spettatori allontanano dal ranch Will Sommer, giornalista sgradito del Daily Beast, nonostante abbia regolarmente acquistato il biglietto. Pare sia stato smascherato da un tweet in cui commentava in diretta le inspiegabili inquadrature del cameraman della convention, che, affascinato, aveva indugiato per trenta secondi sui piedi nudi di una relatrice.
Poco prima è stato espulso anche Vegas Tenold di Vice News, cui John ha strappato il pass accusando la sua testata di rovinare la vita delle persone. Steven Monacelli di Dallas Weekly sfugge ai controlli e assiste a tutto il ciclo di conferenze, senza essere riconosciuto. Gli basta radersi per uniformarsi al contesto ultraconservatore. Non viene identificato nemmeno il marxista Brace Belden, titolare di un popolare podcast satirico su QAnon, che si è mimetizzato indossando cappellini trumpiani (“Rendiamo grande l’America”, “Fanculo Biden”) e che avvicina a suo agio i conferenzieri per una foto ricordo.
Per chi ha familiarità con le tematiche di QAnon, i dibattiti non offrono originali spunti di riflessione. Ogni relatore apporta la propria specifica sensibilità. C’è chi insiste su discorsi motivazionali di auto-aiuto, chi sui valori tradizionali della famiglia e della religione cristiana. I democratici sono un nemico esiziale, su questo invece concordano tutti. Sui muri vengono attaccati adesivi in cui sono definiti letteralmente “il male”.
Mentre dal palco parla George Papadopoulos, ex consigliere di Trump per la politica estera, condannato a due settimane di carcere per aver mentito all’Fbi sui suoi rapporti con intermediari russi, uno spettatore grida di impiccare tutti i democratici. Jason Sullivan, ex social media manager di Roger Stone, uno dei più influenti spin doctor del partito repubblicano, fa il segno del cappio quando menziona Hillary Clinton. Il pubblico batte le mani.
Gli eventi dell’ultimo anno hanno segnato il movimento complottista: la pandemia – per tutti superabile con la medicina alternativa e la somministrazione di idrossiclorochina –, le elezioni di novembre – una frode –, la censura di QAnon sui social media. E poi si parla di salvare i bambini dalle grinfie della cabala satanista, di Illuminati e massoni, dei messaggi nascosti nei cartoni Disney, della propaganda gender, di alieni e degli incendi in California provocati da armi laser spaziali a energia diretta. Durante un workshop su come distinguere la verità in mezzo alla disinformazione online, una donna prende il microfono e chiede se i terremoti sono l’esito di esplosioni per distruggere i tunnel sotterranei in cui sono detenuti i bambini-talpa, i minori rapiti dallo Stato Profondo per suggerne l’adrenocromo, elisir di lunga vita. Saggiamente, l’influencer di QAnon Jordan Sather replica di stare attenta, perché molte notizie sono articoli acchiappaclick.
Sulla convention pesa, in generale, un’atmosfera di inconfessabile malinconia. Chi è a Dallas ha spesso dovuto troncare i rapporti con la famiglia, gli amici, i colleghi di lavoro, e non solo a causa dell’espulsione dai social network. «Ho perso tutto» è una frase che passa sulle labbra, a bassa voce. Per credere a QAnon bisogna staccarsi dal mondo in cui si è vissuti finora, abbandonare la realtà. Ora, per ciascuno dei partecipanti, la famiglia sono gli altri complottisti. Il conduttore radiofonico Doug Billings chiede la mano della sua Tara in diretta: la proposta di matrimonio, «vuoi sposarmi, baby?», s’illumina sullo schermo, seguita da una sgranata fotografia stock con due sposi in uno scenario boschivo e, in sottofondo, Can’t Help Falling in Love di Elvis Presley. Tara acconsente. Congratulazioni!
Per cementare il senso di comunità vengono organizzate aste di memorabilia. I partecipanti si accaniscono per aggiudicarsi una mazza da baseball autografata da Michael Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, che è infine battuta a ottomila dollari, oppure una coperta riproducente una Qversione della bandiera americana con le firme di Flynn, dell’avvocato trumpista Lin Wood e dell’imprenditore nel settore dei cuscini Mike Lindell, acquistata per svariate migliaia di dollari.
C’è chi si porta a casa ritratti di Trump e Flynn abbigliati da rivoluzionari della guerra di indipendenza.
Nella frenesia cinque persone smarriscono la carta di credito. Alcune opere sono semplicemente elargite agli ospiti di riguardo: a Sidney Powell, ex avvocata di Trump, viene fatto dono di un quadro che la rappresenta con un tridente da Poseidone nell’atto di liberare il Kraken, il mostro marino della mitologia scandinava divenuto allegoria delle prove della frode elettorale contro l’ex presidente. Una parte dei proventi delle aste va proprio a finanziare la no-profit di Powell, che si occuperebbe di difendere l’integrità del voto elettorale.
Powell e Flynn sono solo due dei relatori di spicco della convention. Il primo giorno sale sul palco Louie Gohmert, deputato texano alla Camera dei Rappresentanti, che lo scorso ottobre è stato tra i diciotto repubblicani rifiutatisi di votare una mozione di condanna a QAnon. I suoi accenni alla teoria del complotto non sono espliciti, forse se ne vergogna, tanto che alla Cbs negherà persino di essere stato presente al raduno, nonostante le foto e i video che lo immortalano davanti al logo dell’evento. Il massimo grado di coinvolgimento lo raggiunge raccontando l’aneddoto di una cena nella magnificente residenza di Trump a Mar-a-Lago, in Florida, quando l’ex presidente gli spruzzò per scherzo del ketchup sul purè di patate, sebbene lui lo gradisse sul polpettone.
Il secondo giorno è il momento di Allen West, che, appena nominato presidente dei repubblicani in Texas, ha ubiquitariamente assegnato al partito lo slogan qanonista “Noi siamo la Tempesta”. Le sue parole sono importanti perché sembrano indirizzare le scelte del movimento complottista nel prossimo futuro. West incoraggia alla partecipazione nelle elezioni locali, a ogni livello. Il terzo giorno Powell, che indossa un grintoso smanicato di pelle da motociclista, rattoppato di inserti patriottici (“Dio, pistole e fegato hanno fatto l’America”) e di una “Q” sul retro, oltre a un ciondolo a forma di Kraken, ripete il concetto: bisogna prendere il controllo dei distretti, fino ai singoli consigli scolastici.
Ma l’invitato principale è senza dubbio il generale in pensione Michael Flynn. Beh, se si esclude Erica Kious, la parrucchiera di San Francisco nel cui negozio, lo scorso settembre, è entrata, senza mascherina, la speaker democratica della Camera Nancy Pelosi, destando scalpore.
Flynn si presenta con una mazza da baseball nera, poi venduta all’asta, e una felpa Adidas rossa che ricorda quelle preferite da Fidel Castro. Si rivolge alla platea come ai plotoni di soldati che comandava in Afghanistan e Iraq. Chiede a tutti di combattere per il Paese nella guerra dell’informazione, di essere patriottici e cristiani, e di impegnarsi nella politica locale. Nel clima militaresco un ex marine prende coraggio e pone a Flynn la domanda che nessuno osa fare pubblicamente: «Vorrei sapere perché quello che è accaduto in Minimar [sic] non può accadere qui da noi».
Il Myanmar è diventato una vera ossessione per i credenti di QAnon. Guardano con invidia al colpo di Stato militare che ha rovesciato un governo contestato dalla fazione conservatrice sconfitta alle elezioni. Le immagini della leader Aung San Suu Kyi con Barack Obama, Hillary Clinton e George Soros e i report umanitari sul traffico minorile hanno convinto i seguaci del culto complottista che il Paese asiatico era finito tra gli stessi tentacoli pedofili e satanisti della cabala cha attanaglia gli Stati Uniti. Solo che laggiù sono riusciti a sbarazzarsene.
Flynn non sembra né sorpreso né imbarazzato dalla domanda. «Non c’è nessuna ragione», ribatte in scioltezza e poi chiarisce: «Cioè, non c’è nessuna ragione, dovrebbe accadere anche da noi».
L’ex generale si accorge della “gaffe” solo a posteriori, quando il video travalica il villaggio western e Dallas per diffondersi su Twitter. Dal suo canale Telegram fa sapere di essere stato travisato, che le sue parole sono state estrapolate da un contesto più ampio.
Nessuno, però, ha paura di evocare la guerra e la violenza. Sullo stesso schermo su cui Doug Billings ha fatto la sua proposta di matrimonio sono proiettati video in cui si prospetta il golpe militare come unica soluzione per riportare Trump al potere. A un certo punto, si fa la conta di chi era presente a Washington il 6 gennaio, quando il Campidoglio è stato preso d’assalto dai sostenitori di Trump: circa un terzo del pubblico alza la mano.
È sera. Mentre tutti lasciano Dallas per tornare a casa, John e Amy si attardano nei festeggiamenti, in una suite agli ultimi piani dell’Omni Hotel. Lui ha inforcato di nuovo il cappellino da baseball. Dalle finestre i grattacieli rischiarano il cielo texano. Se ci si impegna, si scorge la Dealey Plaza, il luogo in cui John Fitzegerald Kennedy fu ucciso il 22 novembre 1963, quando tutto cominciò, quando lo Stato Profondo prese possesso del governo americano. Sul cellulare di John fioccano i messaggi di ringraziamento. Il raduno è stato un successo, ha rinsaldato una comunità prima dispersa nella fredda impersonalità della rete. Che gli altri parlino pure male di noi, pensa John. Il marxista Brace Belden dirà che QAnon è ormai finito e riderà ricordandosi di quei tre matti, fuori dall’Omni Hotel, che con un megafono pretendevano giustizia per l’omicidio del cantante Prince, ucciso dalla Clinton. A John non interessa. Non gli importa se gli altri credono che QAnon sia una teoria del complotto sull’assassinio rituale dei bambini. L’importante è che non vedano ciò che QAnon è davvero: una fantasia sul rovesciamento violento del governo. Ci hanno già provato una volta, ci proveranno ancora.
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