Donald Trump è un grande appassionato di wrestling, ma forse sareste sorpresi di scoprire come la destra MAGA stia riuscendo a sdoganare l’estremismo di destra con le regole del wrestling.
È una strategia semplice ma astuta, perché intrappola l’opinione pubblica nello stesso dubbio secondario e un po’ ingenuo che inganna gli spettatori ignari delle convenzioni della WWE, la più importante federazione di wrestling professionistico al mondo: quello che sto vedendo è reale o è solo una messinscena? Vale a dire: quando Elon Musk e Steve Bannon fanno da un palco il saluto hitleriano, aderiscono davvero al nazismo o stanno solo recitando?
In teoria, tutti i fan del wrestling dovrebbero sapere che ciò che accade sul ring è predeterminato. Il 10 febbraio 1989, gli imprenditori e promotori della WWE Vince McMahon e sua moglie Linda testimoniarono davanti al Senato americano che il wrestling non era mai stato uno sport competitivo, ma uno spettacolo d’intrattenimento, sottraendosi così agli obblighi di legge per la tutela degli atleti e, soprattutto, all’adempimento di svariate tasse. Poteva essere la pietra tombale sulla credibilità del wrestling, per la verità già da molto tempo messa a dura prova, e invece fu la leva della sua rinascita. Anche se l’incantesimo si era ufficialmente rotto, spettatori e lottatori rinnovarono il loro patto implicito di sospensione dell’incredulità: i primi si impegnarono a illudersi che i combattimenti fossero reali e i secondi a non uscire mai dal personaggio, persino nella vita reale, per quanto possibile.
Nel gergo del wrestling, questo patto si chiama, con una parola di origine incerta, kayfabe. È una sospensione dell’incredulità che differisce in modo decisivo da quella all’opera durante la visione di un film. Al cinema gli eventi sono rappresentati come sufficientemente verosimili da suscitare immedesimazione, ma mai come testimonianze in presa diretta, tranne nel caso del sottogenere del found-footage: alla sua uscita nelle sale, nel 1999, l’horror The Blair Witch Project, fra i primi a usare la tecnica di ripresa del “filmato ritrovato”, terrorizzò infatti gli spettatori perché credevano che gli attori fossero per davvero minacciati da una presenza inquietante nei boschi.
Nel wrestling, invece, i lottatori si sforzano costantemente di convincere il pubblico di non interpretare un personaggio e di portare sé stessi sul ring, e a sua volta il pubblico finge di credere che la rappresentazione cui assiste non segua un copione prestabilito. Questa doppia finzione convenzionale permette al wrestling di non preoccuparsi di essere realistico e di mettere in scena uno show intenzionalmente paradossale e sopra le righe. Anzi, più la performance è esagerata e oltraggiosa, più il pubblico che ne conosce i codici interpretativi è appagato.
Ok, ma il wrestling cosa avrebbe a che fare con la destra MAGA?
Esiste un primo livello di affinità tra i due e affonda nella biografia di Donald Trump. Trump non è il primo presidente appassionato di wrestling, ma è sicuramente l’unico nella Storia ad aver ospitato due WrestleMania, l’evento di punta del circuito, nel suo Trump Plaza ad Atlantic City, l’unico ad aver partecipato a una decina di volte agli show della WWE, anche come attore nel ruolo di sé stesso, e l’unico a essere addirittura inserito nella WWE Hall of Fame.
Secondo molti osservatori, come la politologa Shannon Bow O’Brien, autrice del saggio Donald Trump e la presidenza kayfabe. La retorica del wrestling professionistico alla Casa Bianca, Trump si sarebbe appropriato delle tattiche e dei linguaggi del wrestling impiegandoli con successo in politica. Nelle sue campagne elettorali, il tycoon ha schernito i suoi avversari con epiteti ridicolizzanti - “Hillary la disonesta”, “Joe l’assonnato” – proprio come avrebbe fatto un personaggio cattivo della WWE per provocare lo sfidante prima di un incontro, e si è circonfuso della stessa aura di machismo testosteronico di un wrestler, al punto da non abbandonare mai il personaggio, nemmeno quando è scampato a un attentato mortale sanguinando come un wrestler che simula una ferita grave.
Trump ha, insomma, intuito che nella politica contemporanea conviene essere un heel (il cattivo, nel gergo del wrestling) piuttosto che una babyface (o face, il buono), assecondando una tendenza che il pubblico del wrestling reclamava negli archi narrativi dei vari lottatori fin dalla metà degli anni ’90, quando – spiega la giornalista Josie Riesman, autrice di una biografia di Vince McMahon – «l’irriverenza, la grossolanità e la crudeltà erano molto popolari». La politica si riduce, quindi, a un’arena di wrestling in cui, contro ogni intuito, a essere autentico è proprio il candidato più teatrale e, di conseguenza, il più cattivo: solo lui appare in grado di incanalare le emozioni negative provate dallo spettatore, liberandolo da un peso, e di esprimerle legittimamente in pubblico per via della sua natura trasgressiva.
Se il parallelismo con il wrestling da un lato spiega alcune caratteristiche del populismo trumpiano, al punto che le due rette parallele finiscono con l’incrociarsi con la nomina di Linda McMahon a segretaria all’istruzione, dall’altro riesce anche a illuminare il rapporto tra Trump e i suoi sostenitori.
Questi ultimi non sono – come spesso si dice – dei creduloni facilmente manipolabili dal leader, ma, secondo una penetrante interpretazione del politologo inglese David S. Moon, instaurano con lui una «relazione co-performativa». Sono, in sostanza, come spettatori di wrestling: non credono sul serio a ciò che sentono, comprese le dichiarazioni spesso contraddittorie di Trump, ma fingono di crederci per partecipare pienamente allo show. Si calano nella kayfabe, nella sospensione dell’incredulità, e il fatto che gli altri, attorno a loro, tengano in vita la finzione, rafforza l’illusione. È un meccanismo di conformismo sociale che il filosofo Slavoj Žižek ha chiamato “cinismo ideologico”, cioè quella particolare ambiguità per cui, nel profondo, non crediamo davvero a qualcosa, ma – poiché tutti intorno a noi sembrano farlo – siamo infine indotti a crederci attraverso gli altri.
Il wrestling si regge sulla stessa menzogna interiore, sul fatto che ogni fan coltivi l’illusione di essere fra i pochi intelligenti ad aver compreso il carattere artificioso dei combattimenti e continui tuttavia a fingere che siano reali perché è troppo divertente farlo insieme agli altri.
Uno dei motivi per cui questa interpretazione è particolarmente convincente è che ricorre, seppur senza alcuna correlazione con il wrestling, nelle moderne analisi antropologiche delle teorie del complotto. Mentre una vecchia corrente di pensiero sostiene che chi crede alle teorie del complotto lo faccia per sincera convinzione, abbindolato dalle bugie, oggi molti studiosi avvicinano la credenza complottista alla cultura postmoderna, un mix di ironia, cinismo e disillusione in cui si crede in qualcosa per mancanza di alternative e in cui il desiderio di credere, mentendo in primo luogo a sé stessi, è l’ultima stampella che tiene in piedi l’identità di un individuo.
«È un artista della performance, interpreta un personaggio», è stata, a questo proposito, la curiosa ma indicativa difesa dell’avvocato di Alex Jones, il più celebre complottista americano, durante le udienze per l’affidamento della custodia dei figli. Non dovete giudicarlo mentalmente instabile, ha insistito, sarebbe come giudicare Jack Nicholson dalla sua interpretazione del Joker. «Sono un attore, siamo tutti attori, ma credo in ciò che rappresento», ha aggiunto Jones con le parole che avrebbe potuto usare un vecchio wrestler per salvaguardare il suo lavoro dalle polemiche sulla sua autenticità. E, in effetti, perfino questa confessione non ha minato la credibilità del (lucroso) impero cospirazionista di Jones. La kayfabe tra lui e i suoi seguaci è stata rinnovata anche dopo la rottura dell’incantesimo, come nel wrestling post-1989.
«Ciò che rende Trump speciale, dunque», continua Moon, «non è il fatto che incarni una politica “wrestling”, ma che i suoi sostenitori siano disposti a sospendere l’incredulità e ad appoggiarne la campagna nonostante la sua falsità sia così evidente». Anche le più incredibili teorie del complotto da lui propagate, dagli haitiani mangia-gatti alle elezioni rubate, lungi dall’essere troppo assurde per essere credute, si calano perfettamente nella logica della kayfabe, anzi la potenziano: quanto più l’heel è grottesco ed esagerato, tanto più lo spettatore si sforza di tenere viva l’illusione per essere partecipe del divertimento e godersi lo spettacolo. Tutto fa ridere, persino la violenza politica. Aderire troppo alla realtà, invece, annoierebbe.
Donald Trump suscita le risate del suo uditorio mentre incita a dare un pugno e fare uscire in barella un suo contestatore
Badate bene: non è soltanto il popolo trumpiano a rispettare la kayfabe, anche i commentatori dei media la proteggono involontariamente tutte le volte in cui sostengono che Trump non crede davvero a ciò che dice, ma “fa il Trump”, interpreta un personaggio.
È un cortocircuito che incasina la comunicazione fra i due mondi, lo capite bene, perché la politica, a differenza del wrestling, ha conseguenze sulla realtà. Mentre i sostenitori di Trump fingono di credere a tutto ciò che il leader dice perché sono loro a permettere che il gioco prosegua, i media e i suoi oppositori fingono di credere che nulla sia reale perché non vogliono pensare di essere le vittime di quel gioco crudele. Sono precipitati in una simulazione e coltivano un’altra illusione, pretendono che lì vigano le stesse regole della realtà.
Gli osservatori esterni si ritrovano così disarmati, senza più sapere come distinguere la finzione dalla realtà, come se assistessero per la prima volta a un incontro di wrestling. È per l’appunto l’esito che intendevano creare gli ideologi dell’Alt-Right negli anni Dieci, quando teorizzavano che, grazie all’ironia, concetti prima indicibili sarebbero stati nuovamente ammissibili. Il meme di una Rana – hanno scoperto – era infinitamente più efficace nel diffondere il suprematismo bianco e il negazionismo dell’Olocausto di quanto sarebbe stata capace la propaganda razzista e antisemita. «L’ironia», scriveva il neonazista americano Andrew Anglin, «permette alle persone di prendere strategicamente le distanze dall’impegno molto reale per i valori della supremazia bianca».
Allo stesso tempo, l’ironia consentiva di non assumersi nessuna responsabilità. Erano gesti «chiaramente fatti in uno spirito di ironia ed esuberanza», si è giustificato il nazionalista bianco Richard Spencer quando è stato colto a gridare «Hail Trump!» a una conferenza, nel novembre 2016, in mezzo ai saluti nazisti.
Il problema degli esponenti dell’Alt-Right, però, era che erano troppo palesemente estremisti per essere credibili e portare avanti la finzione. Due mesi dopo, nei pressi della cerimonia di insediamento di Trump, Spencer riceveva un cazzotto in faccia in diretta televisiva. Rottura della kayfabe e fine simbolica del movimento Alt-Right.
Il suo testimone è stato, tuttavia, raccolto da un altro movimento, che aveva non solo l’ambiguità necessaria per mantenere viva la kayfabe, ma anche il potere di imporla: MAGA.
Quando Elon Musk ha mostrato il braccio teso alla folla durante le celebrazioni per l’investitura di Trump, non abbiamo voluto credere che stesse per davvero facendo un saluto fascista. Per un semplice motivo: perché ci appare inconcepibile che l’uomo più ricco del mondo sia fascista sul serio e, soprattutto, che abbia bisogno di esserlo. Lo stesso potremmo dire per il braccio teso dell’ex stratega di Trump, Steve Bannon, alla convention CPAC, e a maggior ragione per quello del leader dell’ultradestra messicana e produttore cinematografico Eduardo Verástegui, durante lo stesso evento. Un nazista messicano, figuriamoci, fa già ridere così.
Anche se i gesti erano inequivocabili, il contesto, le parole e l’espressività con cui sono stati performati hanno prodotto un margine sufficiente di ambiguità per negare che fossero reali o intenzionali. «Quel gesto, che alcuni hanno scambiato per un saluto nazista, è semplicemente Elon, che è autistico, che esprime i suoi sentimenti dicendo ‘voglio darti il mio cuore’», ha tentato di spiegare il suo collaboratore in Italia, Andrea Stroppa, dopo aver cancellato un post in cui festeggiava il ritorno dell’Impero Romano (e del suo saluto, peraltro storicamente inaccurato).
E qui giungiamo, infine, al secondo livello di affinità tra il wrestling e la destra MAGA. I suoi leader parlano e fanno cose da nazisti – dai saluti hitleriani al sostenere attivamente i neonazisti tedeschi alle elezioni – eppure fingono di interpretare solamente un personaggio. Kayfabe: se non la capite, non siete meno ingenui di chi crede che le botte del wrestling facciano male, siete insomma poco intelligenti, ci viene detto senza mezzi termini, come in questo video Instagram dell’europarlamentare leghista Susanna Ceccardi, inviata alla CPAC.
Ma la politica non è il wrestling. Mentre i MAGA si divertono – è evidente – a fare i nazisti, i nazisti, quelli veri e autoproclamatisi tali, esultano perché il nazismo viene sdoganato dagli uomini più potenti del mondo. «Un vero e proprio ‘Sieg Heil’», ha gongolato il neonazista americano Nick Fuentes, commentando il gesto di Musk, «come se amasse l’energia di Hitler».
Di conseguenza, la performance provocatoria e nazista da un lato fa gioire gli elettori e sostenitori trumpiani appagati dal meccanismo della kayfabe – più lo spettacolo è folle, più ci si diverte a fingere che sia reale – e dall’altro attira a sé come un dog-whistle, un messaggio in codice destinato a chi è in grado di decifrarlo, tutti quelli che non hanno bisogno dell’illusione della kayfabe per divertirsi davanti a una performance nazista, cioè i nazisti veri.
Quanto agli altri, all’opinione pubblica a digiuno delle convenzioni del wrestling, viene lasciata nel dubbio che l’estremismo sia troppo plateale per essere preso seriamente. Desidera, desidera ardentemente che sia così, perché la prospettiva che non sia uno scherzo fa dannatamente paura. Quando, nel 1938, lo scrittore francese Louis-Ferdinand Céline pubblicò Bagatelle per un massacro, un pamphlet così grottescamente antisemita da accusare persino il Papa di essere ebreo e da incolpare gli ebrei per la caduta di Napoleone, un altro scrittore, André Gide, arrivò alla conclusione che fosse una satira dell’antisemitismo, perché non poteva credere che un intellettuale come Céline pensasse davvero ciò che scriveva. Due anni dopo, nella Francia occupata dall’esercito tedesco, Céline collaborò con il regime nazista, dimostrando che non scherzava affatto.
Jean-Paul Sartre lo aveva capito. Gli antisemiti, osservava nel 1944,
«sanno che i loro discorsi sono superficiali, incerti; ma ci si divertono. È il loro avversario che ha il dovere di usare seriamente le parole, dato che egli crede in esse; loro hanno il diritto di giocare. Amano anzi giocare con il discorso perché, avanzando ragioni ridicole, gettano il discredito sulla serietà del loro interlocutore; sono in malafede con voluttà, perché si tratta per loro non di persuadere con buoni argomenti, ma di intimidire o disorientare»[1].
Il nazismo kayfabe funziona allo stesso modo: costringe gli avversari delle moderne destre radicali a salire su un ring di wrestling e ad apparire ridicoli nella loro serietà, del tutto improbabile per il contesto, mentre i MAGA hanno la facoltà di travestirsi da nazisti, impugnare motoseghe o persino far fare comizi ad ex lottatori come Hulk Hogan.
Il nazismo kayfabe è una trappola. Se siamo impegnati a discutere di quanto i nazisti siano seri, non possiamo discutere di come metterli al tappeto. E se accettiamo che l’estremismo sia solo una messinscena e sia parte del personaggio, aiutiamo la kayfabe a sopravvivere nel mondo reale. Il gioco diventerà, ben presto, qualcosa di terribilmente concreto, e a quel punto solo uno shock potrà rompere l’incantesimo in cui gli spettatori / sostenitori MAGA sono immersi.
[1] Jean-Paul Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, (1946), trad. it. Milano, Edizioni di Comunità, pp.16-17.
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Il primo riferimento che mi viene in mente è "Mussolini grande attore", scritto del 1934 dell'anarchico Camillo Berneri: "Questo libro più psicologico che storico-politico, tenta di rispondere alla domanda: Mussolini è un grande uomo politico? E risponde di sì. Ma aggiunge e spiega che per essere un grande uomo politico, è necessario essere un grande attore". Forse vale la pena riprenderlo