I pacifisti sono no-vax, Putin è Hitler e altre semplificazioni retoriche
Ecco come la strumentalizzazione degli argomenti anti-complottisti e della Storia distorcono il dibattito su guerra e riarmo
Da studioso di complottismo, ho provato disappunto nel sentir denigrare i pacifisti con l’appellativo di “no-vax”, nella sua accezione più complottista possibile, cioè quella, piuttosto comune in pandemia, di negazionisti tout court dell’emergenza sanitaria1. Come i no-vax rifiutavano in malafede la necessità delle restrizioni anti-contagio e della vaccinazione, allo stesso modo – è l’argomentazione tagliata con l’accetta – oggi i pacifisti respingerebbero l’urgenza del riarmo, negando quindi la realtà della minaccia della guerra.
Intendiamoci: in questi tre anni di guerra in Ucraina, ho personalmente denunciato diverse manifestazioni putiniane e complottiste mascherate da pacifiste, anche se il travestimento – un bagno di bandiere russe e slogan antisemiti – era (volutamente) maldestro e facile da riconoscere.

Nei primi mesi dell’invasione, la guerra aveva accelerato un’evoluzione del complottismo, che dalla “plandemia” – la pandemia pianificata dalle élite per il controllo sociale della popolazione – aveva spostato il centro della sua attenzione verso le presunte cause della guerra, come una cospirazione globalista contro Putin. E una ricerca tedesca confermava questa impressione, mostrando una correlazione tra stato vaccinale e approvazione di narrazioni complottiste sulla guerra: il 56,2% dei tedeschi non vaccinati contro il Covid concordava con le teorie del complotto sull’Ucraina, mentre lo faceva solo il 14,5% di chi aveva ricevuto almeno una dose.
Tuttavia, la disinvoltura con cui l’epiteto di “complottista” è stato applicato ed esteso all’intera categoria del pacifismo mi ha turbato. Il motivo non deriva soltanto dal fatto che l’etichetta è così infamante ed efficace nello squalificare le ragioni del proprio interlocutore da imporre estrema prudenza nell’usarla2. A inquietarmi è stata anche la sfacciata riduzione di una lunga tradizione filosofica, come quella pacifista, alla caricatura di una deriva paranoica o al tipico camuffamento del disertore o del traditore. “Morire per Danzica?”, per sintetizzare questa semplificazione nello slogan con cui l’ex socialista e pacifista francese Marcel Déat rifiutava la prospettiva di combattere e morire per la città polacca reclamata dalla Germania hitleriana. Durante l’occupazione tedesca, Déat finì infatti per collaborare con il regime nazista in nome di un pacifismo irriducibile e fantasioso, al punto da vagheggiare il Terzo Reich come portatore di una nuova era di unità e pace europea.
È dunque concepibile che i pacifisti di oggi siano tutti, più o meno inconsapevolmente, gli eredi complottisti di Déat?
Pacifismo e complottismo: perché l'equazione è sbagliata
Al contrario di Wu Ming, le cui cantonate minimizzatrici su Sars-Cov-2 pregiudicano tutto il successivo impianto di ragionamento, non credo che siamo arrivati fin qui perché la pandemia avrebbe sdoganato un linguaggio militarista e bellicista per mettere a tacere il dissenso.
Accettare questa premessa significherebbe distorcere il dibattito con un parallelismo fuorviante, lo stesso che compie chi delegittima i pacifisti come no-vax: si paragona, cioè, una situazione che esige decisioni ispirate - in varia misura - alla scienza, con un’altra che esige decisioni ispirate a valutazioni di spionaggio diplomatico e militare. Quanto sia diversa la posta in gioco lo si capisce dal fatto che, pur essendo sia il virus sia Putin imprevedibili, non esista l’equivalente di un laboratorio per studiare il secondo come il primo, oppure che Putin, a differenza del virus, cerchi continuamente di ingannare chi lo osserva, o infine che la geopolitica – con tutto il rispetto – non abbia lo stesso rigore scientifico della virologia e dell’epidemiologia.
Insomma, se siamo arrivati fin qui, se politica e media hanno bisogno di strumentalizzare la retorica anti-complottista per vincere il dibattito con il pacifismo, è perché sanno quanto questa retorica sia potente e, soprattutto, perché fanno sempre più fatica a contemplare il dissenso come l’espressione di una diversa ideologia. L’appiattimento allo stesso livello di complottismo e pacifismo nasce proprio da qui, dalla presunzione che il dissenso non abbia ragione di formarsi in una società idealizzata come priva di modelli di sviluppo alternativi e che, di conseguenza, debba per forza essere suscitato dall’esterno, da campagne di propaganda straniera.
Come intuite, è una visione che, per paradosso, sfocia essa stessa nel complottismo, nel pietoso tentativo di autoassolversi e rassicurarsi. Dopo l’imboscata di Donald Trump e del suo vice JD Vance al presidente ucraino Volodymyr Zelensky nello studio ovale della Casa Bianca, le bacheche social dei liberal americani erano inondate da commenti come “Trump è una risorsa russa”, perché, in fondo, è molto più confortante illudersi che siano state le operazioni sporche dei servizi segreti di Mosca a far vincere le elezioni al candidato MAGA, piuttosto che il fascino spontaneo per l’autocrazia provato da milioni di americani.
In effetti, è almeno un decennio che la nostra classe dirigente sembra capirci poco o niente degli sconvolgimenti interni ed esterni al mondo occidentale e che, per interpretare gli eventi, adotta, come spiegazione standard di ciò che non le piace, la patologizzazione o la putinizzazione di chi la contesta. È un universo parallelo, privo della minima autocritica, in cui il portuale inglese per la Brexit, l’allevatore texano trumpiano o il disoccupato pro-AfD di Dresda sono tutti annebbiati da un’improvvisa follia collettiva o manipolati dalla disinformazione dei troll russi.
Putin e Hitler: quando le analogie storiche non aiutano a capire
Lo stesso principio – né patologizzare né putinizzare senza prove – dovremmo applicarlo al pacifismo, a cominciare dall’evitare di screditarlo con accostamenti storici impropri. L’obiettivo di paragonare Putin a Hitler non sembra tanto quello di trarre una lezione utile da un simile precedente storico – come se, poi, la Storia iniziasse con la Seconda guerra mondiale e Hitler fosse stato il primo dittatore della Storia – quanto quello di segnare un punto nella discussione con i pacifisti, zittendoli come novelli Chamberlain (e cioè ingenui appeaser) o, peggio, Déat (“pacifinti”).
Allora proviamo, per esercizio, ad addentrarci nel parallelismo, supponendo di sapere con certezza che la Storia si ripeterà allo stesso modo se non interverremo. E dunque: dopo l’Ucraina, Putin attaccherà i Paesi baltici, la Moldavia, la Romania o persino la Polonia, così come Hitler, dopo aver ottenuto i Sudeti cecoslovacchi, fece con la Polonia.
Qui si pone subito un problema. Mentre Hitler era guidato da una dottrina di suprematismo razziale, il Lebensraum, la conquista di uno spazio vitale per il popolo tedesco, e aveva sempre sbandierato le sue intenzioni espansionistiche, Putin non ha mai dichiarato espressamente di voler annettere i territori succitati. Se davvero lo ha fatto, come sostengono diversi commentatori e politici italiani, perché allora i diretti interessati – i governi baltici – sono così sciocchi da non sfruttare queste pubbliche confessioni a loro vantaggio e, anzi, ammettono di essere all’oscuro dei piani del Cremlino?
La verità è che l’ignoranza dell’ideologia putiniana e della Storia russa conduce le nostre opinioni pubbliche a valutazioni grossolane e, per effetto domino, a calcolare in modo potenzialmente disastroso le azioni in risposta. L’equivoco maggiore sorge da un saggio che Putin pubblicò nel 2021 sul sito del Cremlino, Sull’unità storica di russi e ucraini. In un’operazione di puro revisionismo storico, il presidente russo riesumava il mito zarista dell’unione di tutte le Russie – la Grande Russia (la Moscovia), la Russia Bianca (la Bielorussia) e la Piccola Russia (l’Ucraina) – negando la specificità nazionale ucraina e, di conseguenza, il suo diritto a esistere. Fu infatti a Kiev che si formò il nucleo dell’antico regno di Rus’, prima che le invasioni mongole separassero, dopo circa tre secoli, i destini delle attuali Russia e Ucraina.
L’Ucraina si trascina perciò un retaggio di una tale potenza simbolica per il nazionalismo etnico russo che rende impossibile compararne la storia con quella delle repubbliche baltiche o dei Paesi dell’Europa orientale. Come ha notato lo storico ucraino Serhii Plokhy, docente a Harvard, Putin non si muove guidato dall’ideologia, a differenza di Hitler, ma la sfrutta utilitaristicamente per consolidarsi al potere.
Putin potrebbe, perciò, giustificare una nuova violazione del diritto internazionale con il pretesto del nazionalismo russo? Per capirlo, dovremmo innanzitutto definire quella che Putin chiama “Russia storica”, di cui ha recriminato la fine con il crollo dell’Unione Sovietica. Si tratta di una riproposizione del mito dell’unità delle tre Russie o si deve, invece, decodificarla in senso meno letterale, come l’ambizione del ripristino di una sfera d’influenza russa e di un controllo territoriale, più o meno diretto, sulle ex repubbliche sovietiche? Purtroppo nessuno lo sa, perché nessuno conosce davvero i limiti delle aspirazioni neoimperiali del Cremlino, che sono in continuo aggiustamento.
Il primo passo per comprendere il putinismo consiste nell’umiltà di riconoscere che le informazioni sui suoi disegni geopolitici si riducono a rapporti secretati dell’intelligence e che i paragoni storici con Hitler servono all’opinione pubblica esattamente a colmare questa lacuna e ad avere un rudimentale quadro cognitivo di riferimento per orientarsi nell’imprevedibilità del presente.
Mi pare già di udire un’obiezione: proprio perché vaghiamo nell’incertezza, non è forse più prudente armarsi e scoraggiare così un eventuale attacco russo all’Europa? Ancora una volta, quest’affermazione sarebbe perfettamente logica se Putin fosse Hitler e i se i piani d’invasione fossero semplicemente sabotabili dalla dissuasione militare, ma è sufficiente confutare il parallelismo storico per far precipitare lo scenario da noi auspicato – «la pace attraverso la forza», per citare Ursula von der Leyen – in quello peggiore, ovvero la guerra.
Consideriamo, ad esempio, l’ipotesi che la Russia putiniana non corrisponda affatto alla Germania nazista del 1938, ma, piuttosto, alla Germania guglielmina fra il 1910 e il 1914. Allora lo stato maggiore tedesco era ossessionato dal rafforzamento militare russo e, rassegnatosi all’inevitabilità dello scontro, arrivò al punto di sperare in una crisi qualsiasi per dichiarare guerra prima che lo squilibrio fra i due eserciti fosse irrecuperabile.

Inquietudini di questo tenore erano, per la verità, diffuse in tutte le cancellerie e corti europee, tanto che la leggerezza con cui le grandi potenze precipitarono nel primo conflitto mondiale fu anche dovuta alla convinzione fatalistica che rinviare la guerra avrebbe portato meno benefici che farla scoppiare il prima possibile. Un esempio concreto: l’atteggiamento irremovibile della Russia nella crisi fra Austria-Ungheria e Serbia fu anche dovuto alla preoccupazione di perdere un alleato nei Balcani, proprio mentre l’Impero Ottomano guadagnava una schiacciante superiorità navale con due nuove corazzate dreadnought ordinate alla Gran Bretagna.
Traslando questo contesto nel presente, diventa evidente come l’annuncio di un massiccio riarmo europeo, più che dissuadere la Russia, possa al contrario indurla a credere 1) che la guerra si avvicini inesorabile e 2) che sia paradossalmente conveniente pianificare un’offensiva prima che il nemico sia troppo forte. In questo scenario, Putin potrebbe ritenere preferibile un’aggressione militare ai Paesi baltici con le sue forze attuali, più che sufficienti per sopraffarli, piuttosto che limitarsi a eventuali e incerti tentativi ibridi di influenza e destabilizzazione.
Il paranoico senso di accerchiamento del Cremlino potrebbe, per di più, aggravare il fraintendimento del piano di autodifesa europeo, il che intensificherebbe il paragone con la vera variabile impazzita del 1914, l’Impero asburgico.
Ne I sonnambuli, lo storico Christopher Clark ha evidenziato come, nella decisione austriaca di spingere all’angolo la Serbia con ultimatum irricevibile, dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando per mano di uno studente nazionalista serbo, non ci fosse una valutazione soppesata delle conseguenze, tra cui un conflitto a cascata, ma una specie di «impulso viscerale, di natura intuitiva, una “decisione allo stato puro” fondata su un comune modo di percepire quello che l’Impero austro-ungarico era e cosa avrebbe dovuto essere se fosse rimasto una grande potenza».
È inquietante pensare alle similitudini con il nazionalismo russo contemporaneo, oscillante tra l’illusoria arroganza di aver riconquistato la grandezza di un tempo e il vittimistico e mai superato senso di inferiorità provocato dalla sconfitta nella Guerra Fredda e dalla gravissima crisi economica e politica degli anni Novanta. La guerra, insomma, come grido disperato di affermazione della propria individualità e della propria capacità di agire nel mondo, al di là di qualsiasi calcolo razionale. Ecco come la Russia potrebbe sopravvalutare sé stessa e abbracciare uno scontro fatale, pur di dire a tutti: Io esisto!
In pratica, non esiste nessuna garanzia che la corsa alle armi convenzionali svolga la stessa funzione di deterrenza della corsa alle atomiche. Metterle sullo stesso piano è una fesseria giustificabile solo per chi ha studiato la Storia dalla Seconda guerra mondiale in poi.
Il mito dell’Europa disarmata di fronte alla macchina bellica russonazista
“E, dunque, la soluzione sarebbe non fare niente e lasciare l’Europa disarmata per il timore ridicolo di allarmare la Russia?”, potrebbe essere la replica.
L’Istituto Internazionale di Studi Strategici, il più importante think tank di analisi militare, quantifica a 457 miliardi di dollari la spesa europea per la difesa nel 2024, a fronte dei 145,9 miliardi della Russia (più di tre volte). Si tratta del decimo anno consecutivo di crescita delle spese militari. Fra i grandi Paesi europei, l’Italia è peraltro quello che ha diminuito in misura minore il bilancio per la difesa dalla fine della Guerra Fredda, con un calo del 9,1% (-27,9% la Germania, -35,7% la Francia, -51,4% il Regno Unito).
Un altro autorevole centro studi, lo svedese SIPRI, ha rilevato come l’Italia, fra il 2019 e il 2023, abbia quasi raddoppiato la sua quota globale nell’esportazione di armi e sia ora il sesto esportatore mondiale. Complessivamente, i Paesi europei della NATO occupano quasi un terzo della quota del mercato mondiale della vendita di armi, superiore di tre volte alla Russia. Le proporzioni si mantengono inalterate anche se ci concentriamo su alcune dotazioni militari, come i carri armati: 32.995 a disposizione dei Paesi europei della NATO contro i 13.528 della Russia.
L’Europa non pare, insomma, quel continente inerme descritto da molti, né allo stesso modo la Russia sembra una superpotenza quale era, invece, l’Unione Sovietica. Il suo prodotto interno lordo è più simile a quello dell’Italia o della Spagna che a quello americano, con una popolazione di 146 milioni di persone (un terzo di quella UE) erosa dalla fuga dei suoi migliori talenti, dalla morte o del ferimento di mezzo milione di giovani in Ucraina e da bassi tassi di natalità solo di poco migliorati negli ultimi anni.
Per farci un’idea, la Germania nazista riuscì a mettere a ferro e fuoco l’Europa avendo alle spalle la seconda economia mondiale e una popolazione di oltre 70 milioni di individui, che quasi pareggiava quelle di Regno Unito e Francia messe insieme. Allo scoppio della guerra, Hitler aveva già mobilitato il 25% dell’apparato produttivo allo sforzo militare, un livello sproporzionato che Putin è molto lontano dal raggiungere (circa l’8% del Pil nel 2025) e che probabilmente non può toccare senza pregiudicare la stessa sopravvivenza del regime. Lo status di superpotenza della Russia è, in sostanza, più il successo delle sue campagne di propaganda (e degli abbagli europei) che lo specchio dei suoi successi reali, compromessi dallo stallo in Ucraina e dal reclutamento di mercenari inaffidabili e soldati nordcoreani.
In effetti, non sarebbe la prima volta che la classe dirigente europea commette imperdonabili errori di valutazione. Nel 2022 la Russia era, all’opposto, dileggiata come un gigante agonizzante, costretta a riciclare componenti di lavatrici e frigoriferi per riparare i mezzi militari.
Ursula von der Leyen afferma, durante lo Stato dell’Unione nel settembre 2022, che l’esercito e l’economia della Russia sono a pezzi
Per quanto i russi abbiano, nel frattempo, imparato molto dall’esperienza sul campo, non c’è da stupirsi che la nostra opinione pubblica sia disorientata dal repentino cambio di narrazione. E la sfiducia sembra ben riposta.
L’Europa vuole un’economia di guerra, ma non sa se i ponti reggeranno il peso dei carri armati
Nel settembre 2015, durante un’esercitazione congiunta della NATO in Norvegia, i soldati tedeschi del Panzergrenadierbataillon 371 suscitarono l’imbarazzo degli alleati quando usarono manici di scopa dipinti di nero per simulare le canne dei fucili. Le carenze delle forze armate tedesche – fucili d’assalto che sparavano storto, personale che comunicava con apparecchiature non criptate, truppe trasportate su furgoni Mercedes invece che su blindati – erano diventate così comiche che un ufficiale britannico aveva ironicamente soprannominato l’esercito della Germania «un’organizzazione di campeggiatori aggressivi». Per rimediare al disastro, il ministero della difesa tedesco aveva, quindi, stipulato contratti multimilionari con la società di consulenza americana McKinsey, finendo, però, sotto i fari di un’inchiesta parlamentare per sospette irregolarità e accuse di clientelismo. A guidare il ministero della difesa c’era Ursula von der Leyen.
Vista la sua clamorosa inadeguatezza nell’equipaggiare l’esercito del suo stesso Paese senza cadere nel ridicolo e nello scandalo, è lecito domandarsi se l’attuale presidente della Commissione europea sia la persona giusta per condurre un mastodontico piano di riarmo europeo da 800 miliardi di euro.
Le premesse non sono promettenti. Invece che determinare, in primo luogo, i bisogni dei sistemi difensivi europei nell’ottica, auspicabile, di ottimizzarli e integrarli fra loro e, solo in secondo luogo, calcolare le spese necessarie per soddisfarli, si è preferito l’annuncio spot di una cifra mostruosa. Si sente speranzosamente dire che il riarmo possa essere il presupposto di una difesa o, almeno, di un coordinamento comune, eppure l’alto rappresentante europeo per gli affari esteri e la sicurezza, Kaja Kallas, ha negato che l’Europa abbia bisogno di un esercito comune, meglio 27 eserciti diversi capaci di lavorare insieme. Il contrario di ciò che servirebbe davvero, come un grado maggiore di interoperabilità e una struttura di comando unificata.
Gli eserciti europei, infatti, non saranno sicuramente disarmati, ma non sono nemmeno esenti da criticità. Ci sono, ad esempio, dubbi che la spesa per la difesa in rapporto al Pil sia un’unità di misura accurata, perché i costi del personale e dell’equipaggiamento militare in Russia sono inferiori rispetto agli Stati Uniti o all’Unione Europea. Con le dovute proporzioni, la differenza tra il budget militare europeo e quello russo si ridurrebbe di quasi sei volte, pur mantenendo il primo un vantaggio del 56% sul secondo, senza contare il divario tecnologico.
Ma quanti soldi servirebbero allora? 800 miliardi, di cui il 78% – con i trend attuali – rischia di finire nelle casse dell’industria bellica americana, non sono forse troppi? Parliamo di un aumento del budget militare dell’1,5%, fino al 3% del Pil per Paesi come l’Italia, uno stanziamento che il nostro Paese non metteva in campo nemmeno durante la Guerra Fredda.
Su quali stime si è basata la Commissione? Difficile capire da dove arrivi questa cifra. Un rapporto del think tank Bruegel suggerisce addirittura di impegnare il 3,5% del Pil, ma presupponendo che gli eserciti europei sostituiscano in blocco le 300mila unità americane dislocate nel Vecchio continente. È plausibile che questo sforzo sia fuori scala. Il nuovo segretario della NATO, l’olandese Mark Rutte, prevede che i membri dell’Alleanza debbano impegnarsi a spendere fino al 3% del Pil in difesa entro il 2030, anche se queste metriche meramente matematiche sono sempre più contestate perché generiche e confuse. L’Italia, ad esempio, spende oltre il 60% del budget militare in stipendi e pensioni del personale, eppure, allo stesso tempo, soddisfa il requisito NATO di spendere almeno un altro 20% in attrezzature militari, migliorando persino le proprie prestazioni di spesa durante la Guerra Fredda.
L’aspetto prioritario appare, più che altro, la qualità della spesa, anche tenendo conto che in passato, come nota Bloomberg, molto denaro è stato impiegato per sistemi costosi ad alta tecnologia utili più per rafforzare il prestigio che le capacità militari.
Per capire in cosa sia urgente investire, immaginiamo, quindi, lo scenario bellico peggiore, simulato dal CEPA, un think tank euroamericano: Putin dà ordine di attaccare i Paesi baltici per testare la volontà della NATO di difenderli. L’invasione procederebbe da nord, dall’Estonia, e contemporaneamente da sud, dall’enclave di Kaliningrad e dalla Bielorussia verso la Lituania, con la Lettonia presa in mezzo. Gli analisti ipotizzano anche l’esplosione di un piccolo ordine nucleare ad alta quota, sopra acque internazionali, a scopo dissuasivo e per mandare in tilt le comunicazioni sull’isola svedese di Gotland, che verrebbe temporaneamente occupata. Non è indispensabile arrivare a tanto per individuare l’impreparazione delle forze europee: i polacchi impiegherebbero tre giorni prima di poter schierare soldati al confine lituano, mentre altre truppe europee non si vedrebbero prima di due settimane. La Russia avrebbe gioco facile nel mettere gli europei di fronte al fatto compiuto costringendoli, sotto minaccia nucleare, ad accettarlo. «Se la NATO acconsentisse», si legge su Foreign Policy, «la sua credibilità sarebbe distrutta per sempre».
È chiaro che l’Europa deve mettersi nelle condizioni di non permettere, a nessun costo, che questo scenario si verifichi nel futuro. La dissuasione è, però, più una questione di logistica militare che di investimenti faraonici. Innanzitutto, occorrerebbe sviluppare capacità di mobilitazione rapida: ad oggi la Francia impiegherebbe un mese per mobilitare 20mila uomini e altrettanto il Regno Unito, e se le forze di Sua Maestà dovessero andare perdute in battaglia, il Paese non avrebbe un’altra divisione da predisporre in tempi brevi. La Germania stima che passeranno almeno due anni prima di avere una brigata di 5mila uomini da inviare in Lituania.
In secondo luogo, è inutile avere le truppe senza una logistica funzionante per spedirle rapidamente al fronte: c’è bisogno di strade, porti, aeroporti, collegamenti ferroviari in ottimo stato. I carri armati pesano, e i ponti non possono crollare quando questi li attraversano. Negli ultimi anni, tuttavia, la Commissione europea ha tagliato drasticamente i fondi ai progetti per la logistica militare e le infrastrutture, come osserva l’Economist. Così, solo di recente, i Paesi NATO hanno iniziato a domandarsi se siano in grado di spostare forze dall’Olanda alla Polonia in meno di 90 ore e a eseguire esercitazioni su vasti teatri di guerra.
Insomma, attorno al tema del riarmo si è sentita, da parte della classe dirigente europea, compreso il suo ceto intellettuale, troppa retorica e poca attenzione al senso pratico, con le aggravanti della sanzione delle opinioni dissonanti e dell’ignoranza storica.
Come scrive lo storico dell’economia Adam Tooze, per rendere di nuovo preparati gli eserciti europei è controproducente risvegliare i demoni della Seconda guerra mondiale. Quello che serve non è un’economia di guerra, ma, molto più realisticamente, tornare ai bilanci militari degli anni Settanta e Ottanta, quando l’Europa riusciva a svolgere la sua funzione di deterrenza senza sacrificare lo stato sociale. Rinunciare al welfare per la sicurezza potrebbe indurre i cittadini a domandarsi per cosa si combatte.
A quel punto, non saranno le armate putiniane a privarci della libertà, basteranno le estreme destre, già ora in ascesa. Un’Europa di nazionalismi armati fino ai denti: allora sì che saremmo davvero nel 1938.
1 Sulla definizione controversa di “no-vax” invito a recuperare due post Facebook dell’Osservatorio dal 2021: istruzioni per l’uso del termine “no-vax” e una tabella per identificare le varie tipologie di non vaccinati.
2 Per una discussione più approfondita, rimando al mio “Manuale per fabbricare una teoria del complotto” (People, 2024).
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Ricordo poi che, per People, sono usciti i miei due saggi sulle teorie del complotto: “L’ideologia della paura. Come il complottismo ha conquistato l’America e l’Europa” e “Manuale per fabbricare una teoria del complotto”.
Gli altri articoli della newsletter sono disponibili nell’archivio, qui.
Gentile dottor Miceli, ho apprezzato la sua disamina informata e i dubbi di efficacia che lei ha sollevato, motivandoli.
Faccio solo presente che la questione se quella europea sia una risposta adeguata è vista negativamente anche da molti di coloro che la anelano in funzione del timore che gli USA, prima o dopo, ci lasceranno soli.
Alcuni vorrebbero l’esercito comune, ma sanno che è politicamente lontano anni luce, altri affermano che abbiamo rinunciato a competenze in troppi sistemi d'arma che dobbiamo recuperare ma sanno che ci vorranno anni. Ciononostante costoro ritengono che rispondere allo shock fosse necessario (non ricordo se da Draghi o Prodi, o da entrambi, sia uscito un "Europa fai qualcosa") e praticamente inevitabile e che questo sia solo il primo passo praticabile verso un’Europa in grado di esprimere deterrenza (non nucleare) senza la certezza degli USA al proprio fianco.
D’altra parte le sue posizioni sulla non opportunità di una risposta troppo "espressa" da diventare potenzialmente controproducente mi pare più o meno condivisa anche dal dottor Caracciolo che certo pacifista non si può definire.
Personalmente io temo realmente per i Baltici e comprendo le loro paure perché, nonostante le differenze che lei ha compiutamente spiegato riguardo a come Putin vede l'Ucraina rispetto ad altri territori, resta da sapere se dopo parte della Georgia, la Crimea e ora la parte est dell'Ucraina i suoi appetiti geopolitici (o di chi arriverà dopo di lui) saranno saziati, o piuttosto stimolati dall'arrendevolezza altrui. Anche perché, nel loro caso, la scusa delle minoranze russe vessate è bell'e pronta…
Per quanto mi riguarda la priorità è dare all'Ucraina più mezzi possibili per essere attore attivo nel processo di pace e, con questo, intendo anche mantenere, finché lo chiederanno, una fornitura bellica più adeguata possibile e garanzie, per quanto possibili, di non aggressione per il futuro (come?…)
Tocco solo di sfuggita il parallelismo no-vax e pacifismo: di fronte a scelte così divisive come quelle inerenti le libertà personali e la dicotomia pace-guerra credo sia difficile non vivere quelle altrui come disturbanti e, senza una sana corazzatura di onestà Intellettuale, è forte la tentazione di depotenziarne i presupposti associandoli a qualcosa di, per noi, screditato.
Io condivido con lei che decisioni basate sulle evidenze scientifiche (vedi vaccino COVID) hanno ben altra valenza rispetto alle speculazioni geopolitiche ma, almeno all’inizio, si presero decisioni per "presumibilità" scientifica perché certezze non c'erano, neppure in quel caso (senza contare il contesto più largo di scelte che cercavano di tenere assieme tante cose diverse pesandole e, inevitabilmente, con una certa arbitrarietà).
Grazie per l’articolo che diffonderò, cordiali saluti
con tutto il rispetto ma si sta ignorando l'elefante nella stanza, ovvero pare che gli usa vogliano disimpegnarsi dallo scenario europeo per poter affrontare con maggior forza la cina stringendo maggior legami con mosca (questo lo fanno pensare le nomine per il gabinetto di trump oltre le sue azioni).è ovvio che se diamo per scontato sia tutto un bluff possiamo anche ignorare le spese militari ma giustamente non possiamo farlo anche per restituire autonomia militare all'europa. Il confronto delle spese militari va giustamente fatto in rapporto al potere d'acquisto ma non solo, far spendere una cifra a 27 paesi è decisamente molto meno efficiente di far spendere la stessa cifra (o poco meno) ad un solo paese, questi paesi tendono a creare gli stessi "tipi" di mezzi complicando infinitamente la logistica (un leopard non si ripara come un centauro ecc.). Inoltre sarò viziato ma in caso di guerra io non vorrei che il mio paese (ipotetici stati uniti d'europa) spenda solamente poco più del mio avversario (che inoltre non è per nulla trasparente sulle spese militari). L'unificazione ed efficientamento della logistica è un processo lungo che è parallelo necessariamente ad una sorta di unificazione politica (dobbiamo tutti identificare il nostro "nemico" e progettare un esercito preposto ad affrontare lui specificamente, dobbiamo scegliere quali fabbriche di quali paesi producono cosa, maggiore collaborazione delle intelligence ecc.) e visto che non c è stata in passato si rimedia aumentando tutti la spesa poiché in situazione emergenziale. La questione dell'attacco preventivo russo all'europa è del tutto ignorabile finché non si conclude la questione ucraina (oppure non si prendano azioni decisive per la sua conclusione come una mobilitazione generale russa) ma vi è la situazione precaria del corridoio suwalki dall'articolo accennata per cui vi è un gran numero di precedenti (sfruttamento del pretesto delle minoranze russe) ed è quì che calza quindi il paragone con hitler, non solo la ipotetica creazione di uno "spazio vitale" cuscinetto con la nato (si rimanda al discorso di putin pre invasione) ma anche la supremazia etnica, "gli ucraini non esistono ma sono russi", la russificazione in corso nelle zone occupate e le precedenti "annessioni" in cecenia, moldavia, georgia e ucraina. Un altro punto è probabilmente il fatto che le guerre aizzano il fervore della popolazione russa in una società dove il regime è costretto a svolgere delle lotterie in concomitanza delle elezioni per poter continuamente giustificare il loro potere non trasparente nei confronti del popolo. Non si capisce inoltre perché si è tentato di sminuire le preoccupazioni che i baltici hanno nei confronti della russia quando sono i primi, insieme alla polonia, nelle classifiche di spesa in rapporto al pil, quando sono loro stessi a dire che la russia avrà 5 anni di tempo per riarmarsi dopo la guerra in ucraina, sono loro a trainare l'europa sulle questioni militari (hanno raccomandato l'introduzione della coscrizione nei paesi europei) e sono continuamente minacciati per la questione delle minoranze russe (anche la russia ha negato fino al giorno prima di star invadendo l'ucraina, mi pare ovvio che un paese non riveli esplicitamente le sue intenzioni strategiche al mondo intero considerando che anche la cina non lo fa per la questione taiwan ("unificazione" politica o militare?)). Sul periodo finale mi pare ci sia una curiosa e divertente inversione rispetto alla realtà, nei paesi europei, che hanno il welfare superiore rispetto al resto del mondo, vi è già la minore propensione a combattere https://www.gallup-international.bg/en/48127/fewer-people-are-willing-to-fight-for-their-country-compared-to-ten-years-ago/.Concludendo vorrei far notare che proprio perché le spese per la difesa durante la guerra fredda furono in proporzione superiori non si svilupparono conflitti diretti perché se la guerra la fai ad un tuo "pari" tanto vale non farla